Fu uno dei protagonisti di quel gesto – semplice nella pratica, eclatante per la portata – di non prestare giuramento a Hitler come soldato della Wermacht. Allora aveva solo 19 anni e, grazie al suo buon bilinguismo (parlava bene italiano e tedesco), era stato assegnato agli uffici del Polizeiregiment Brixen. Oggi don Peter Pöder, originario di Lana, ha 80 anni, presta il suo servizio nella Curia vescovile di Bolzano, dopo diversi incarichi come cappellano di Silandro e Merano, quindi come decano a Kaltern (Caldano) per 18 anni. E quando ripensa a quel giorno piovoso del febbraio 1945 in cui negò la sua adesione al Führer, l’anziano e vispo sacerdote vaga con gli occhi al di là della finestra del suo ufficio e si specchia nel cielo terso alla ricerca del perché di una scelta così coraggiosa.
Reverendo, cosa la spinse a non giurare fedeltà a Hitler?
«Furono la mia fede cattolica e la mia formazione famigliare a non farmi prestare giuramento. In casa, mio padre e mia mamma ci avevano sempre ribadito che i discorsi di Hitler non erano cristiani. Con quel gesto i nostri capi volevano l’adesione di tutti noi soldati alla causa del nazismo: ma come potevo giurare se io avevo un altro credo?».
Perché i suoi commilitoni non risposero «Ja!» alla formula di giuramento?
«Ancora oggi non so spiegarmi questo gesto: io, personalmente, non avevo parlato con nessuno della mia decisione interiore e non sapevo che tutti avrebbero fatto così. Tra noi soldati non c’era grande comunicazione e soprattutto non veniva fatta alcuna propaganda antinazista».
Può raccontarci cosa avvenne di preciso?
«Ci radunarono per il giuramento di rito al termine del corso di addestramento: eravamo in 1400, di lì a poco dovevamo essere mandati nel Bellunese. Quando venne il momento del giuramento, si levò solo un brusio, un piccolo mormorio. Franz Hofer (il rappresentante di Hitler nell’Alpenvorland, ndr), arrivato per l’occasione a Bressanone, gridò 5 o 6 volte "Più forte, più forte!", per incitar ci ad alzare la voce. Ma nessuno lo fece. Hofer si stupì molto e sbottò: "Come è possibile che tutti stiano in silenzio?". Poi, ad un certo punto, furibondo, se ne andò. Venni a sapere, tramite il mio superiore, che Hofer aveva sentenziato: "Questo non è un giuramento!". E così venne deciso di inviarci al fronte orientale, in Slesia».
Come venne interpretato il vostro mutismo dai capi?
«Capirono benissimo che si trattava di una ribellione. Compresero molto chiaramente che noi volevamo respingere il nazismo e non aver niente a che fare con Hitler».
Lei, interiormente, come reagì al silenzio unanime dei suoi commilitoni?
«Pensai subito: è giusto così. Era il nostro modo di rifiutare una mentalità pagana. Molti di quei soldati erano credenti e cattolici, e non riuscivano a capire l’idea del nazismo. Certo, non avrei mai pensato a un castigo così pesante come l’invio sul fronte orientale».
Che voleva dire la morte quasi certa: sapevate che, non giurando, sareste incorsi nella punizione di essere spediti su un fronte pericoloso?
«No, non ne eravamo a conoscenza. Dopo pochi giorni noi del Brixen venimmo spediti in Germania e qui il battaglione venne sciolto, perché i capi temevano un complotto. Io mi ritrovai solo 3-4 compagni del vecchio battaglione».
Cosa le successe in seguito?
«In Germania venni inquadrato nelle SS e mi sarei dovuto sottoporre al cosiddetto "rito dell’impronta", con il quale ogni soldato scelto veniva segnato sul braccio con un marchio per segnalare – in caso di pericolo di vita e di necessarie trasfusioni di sangue – che lui era delle SS. Ma io non mi feci fare nulla e nessuno se ne accorse. Così, quando mi catturarono i russi, non trovarono l’impronta da SS e, anche grazie alla mia carta d’identità italiana, riuscii a salvarmi. Fatto prigioniero dai russi, scappai con 3 commilitoni, arrivai in Baviera, che era stata liberata dagli americani, e poi al Brennero. Quindi a piedi tornai a casa».
Per poi entrare in seminario …
«Sì. Finii il lic eo da privatista, feci la maturità nel 1947 e l’anno seguente a Innsbruck mi iscrissi alla facoltà teologica, dove ebbi il grande Karl Rahner come docente: un uomo umile, dalla fede che veniva dal cuore. Feci il dottorato in dogmatica con suo fratello Hugo. Poi fui ordinato prete e prestai il mio servizio in diverse parrocchie».
In che modo l’esperienza della guerra influenzò la sua vocazione?
«In casa si diceva spesso che il nazismo era contro la Chiesa, e per questo sapevo che il nazismo non era una cosa buona. Una volta tornato dalla guerra, mi resi conto che la fede cristiana faceva di un uomo una persona diversa dalle altre e le famiglie cattoliche erano differenti, più unite e aiutavano gli altri. Così ho deciso a diventare prete»
Quale significato ha avuto, per lei, il gesto di non giurare al nazismo?
«Nella nostra famiglia (eravamo in otto: anche il papà e due miei fratelli sono andati in guerra) mi avevano insegnato che chi aderiva al nazismo era su una strada sbagliata. Secondo i miei genitori Hitler era un uomo che non aveva la minima fede e che non aveva niente a che fare con i cristiani. Per questo quel giorno decisi di restare in silenzio».
Tratto da Avvenire
6 commenti:
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