20 febbraio, 2008

Eugenia Bonetti, una dei nostri eroi piu' belli

Eugenia Bonetti è una suora di 70 an­ni. Come missionaria della Consola­ta ha passato 23 anni in Kenya. Poi è tor­nata in Italia. Una sera del giorno dei Morti, diversi anni fa, stava andando a Messa, quando l’ha fermata per strada u­na ragazza nigeriana. «Madre, voglio par­larle », fa la ragazza. «Vieni in chiesa con me, dopo mi racconti», risponde la suo­ra – con quell’attitudine dei missionari a non stupirsi mai della faccia di chi li fer­ma per strada, e nemmeno dei vestiti che indossa. La sconosciuta era una prosti­tuta portata in Italia come altre migliaia, per forza o per disperazione. Però, an­nientata dal suo “lavoro” di comprata e venduta, voleva liberarsi, e smettere. È così che una piccola minuta suora lom­barda allora verso la sessantina – l’età in cui gli altri vanno in pensione – comin­cia a mettere su una rete di 110 case di ac­coglienza gestite da suore di vari ordini, sotto la direzione dell’Unione supe­riori maggiori italia­ne. In dieci anni, da quando un articolo della legge sull’im­migrazione consen­te a chi denuncia i propri sfruttatori un permesso di sog­giorno per il reinse­rimento, nelle case e nei conventi di suor Eugenia sono passa­te cinquemila ragaz­ze (come racconta il servizio nelle pagine interne) e in otto su dieci hanno trovato un lavoro, o hanno scelto di tornare in patria. Alcune, che erano incinte, il figlio se lo sono tenute – è bastato avere una faccia amica accanto. Migliaia di rume­ne, moldave, africane, venute qui a sedi­ci anni a battere un marciapiedi, educa­te a una ferrea obbedienza dall’omicidio di qualche compagna trovata ammazza­ta di botte in una roggia, hanno rico­minciato a vivere grazie a suor Eugenia e alle sue compagne. Ma, lo conoscevate il volto di quella suora, e il suo nome? La cosa singolare è che in un mondo in cui si diventa famosi anche per una pa­rolaccia detta in tv, donne così siano, al grande pubblico, quasi sconosciute. Una foresta che cresce non fa rumore, è pro­prio vero: migliaia di donne liberate dai loro “padroni” possono passare inosser­vate, come una notizia banale. Ma qual­cosa affascina nell’operare di queste donne vestite di nero o di grigio, come invisibili, oppure viste solo nell’immagi­ne stereotipata di chi le giudica delle mo­raliste, delle bacchettone, creature fuori dal tempo anacronisticamente soprav­vissute nella modernità. Ciò che meravi­glia è il loro fare pienamente concreto – concrete tanto da sapere accogliere e e­ducare delle ragazze che pochi vorreb­bero in casa; ma senza slogan, senza al­cun rumore, senza alcun proclama me­diatico. Un fare ostinato e invisibile, con­tro a un visibilissimo, assordante quoti­diano rumore. Sembra la cifra, questo lavorio silenzio­so, di un approccio alla realtà che chia­meremmo profondamente femminile, e pazienza se qualcuno se ne scandaliz­zerà. Un’attenzione concreta alla perso­na che si ha davanti: semplicemente a quella, che sia figlio, alunno, paziente, o una poveretta importata dall’Est come u­na cosa. Un’accoglienza all’altro che è poi declinazione in forme diverse di un’atti­tudine materna – altra espressione oggi­giorno politicamente scorretta. Il lavoro oscuro delle sorelle invisibili di suor Eu­genia come di migliaia di altre, negli asi­li, negli ospizi, con gli extracomunitari, è una maternità - più forte ancora di quel­la carnale, giacché è più difficile amare un vecchio o una ragazza della strada, che tuo figlio. Una maternità, e questo spie­ga perché il mondo non se ne accorge. Ma anche perché, nel silenzio dei titoli, lo stesso mondo ne viene trasformato profondamente, alla radice, in ogni fac­cia accolta e amata.



Sul marciapiedi, al fianco di quelle che chiama «sorelle della strada e della notte», per lottare in silenzio contro la nuova schiavitù del terzo millennio, il traffico di es­seri umani. Suor Eugenia Bonetti, 69 anni, milanese di Bubbiano, Missionaria della Consolata, guida dal 2000 l’ufficio anti-tratta dell’Usmi, l’unione delle superiori italiane. Dopo un master negli Usa sul traffico, dieci anni fa ha organizzato in tutta la Pe­nisola una rete molto effi­cace di donne consacrate con l’abito, velo e croce sul petto, determinate a rida­re libertà e dignità ad altre donne, schiave senza no­me e senza storia. Colla­borano strettamente con le istituzioni pubbliche, Caritas e società civile. Premiata nel 2004 dal go­verno di Washington per il suo impegno nella lotta contro il traffico di esseri umani, suor Eugenia è sta­ta ricevuta al Quirinale da Ciampi e Napolitano. Quando George Bush vi­sitò Roma nel giugno scor­so, volle conoscere la sister. Lei ne approfittò per solle­citare all’uomo più poten­te della Terra maggiore im­pegno contro povertà, cor­ruzione e i trafficanti di persone. Oggi, a mezzo se­colo esatto dall’approva­zione della legge Merlin che soppresse le case chiu­se e proibisce lo sfrutta­mento sessuale, l’Italia scopre di avere in casa un modello poco conosciuto, eppure studiato da Usa e Onu per contrastare il traf­fico di esseri umani: la re­te creata da suor Bonetti, che ha reso le suore prota­goniste della lotta alla trat­ta curando le ferite dell’a­nima e la formazione pro­fessionale delle giovani vit­time per aiutarle a co­struirsi un futuro. In me­dia otto su dieci ce la fan­no. Lo Stato finanzia gli in­terventi con bandi per quattro milioni e mezzo di euro l’anno. A livello internazionale, i­noltre, l’esperienza di suor Eugenia ha ispirato un progetto dell’Onu sponso­rizzato dall’ambasciata U­sa presso la Santa Sede per formare suore anti-tratta in Nigeria e in Europa del­l’est. Una delle nuove frontiere per contrastare il traffico globale, che vale 32 miliardi di dollari l’an­no, terzo business crimi­nale del pianeta, è gestito da mafie spietate e porta nel Belpaese dall’Africa e dall’Europa dell’est onda­te di giovani donne, spes­so minorenni. Secondo i dati ufficiali nella Peniso­la sarebbero arrivate, dal 2000 al 2004, 50 mila don­ne dall’est Europa e dal­l’Africa. Per chi opera sul campo, le vittime sareb­bero 100 mila.

Suor Eugenia, quando ha cominciato ad occuparsi di tratta?

«Nel 1993. Ero tornata a Torino alla casa madre do­po 24 anni di missione in Kenya. Stavo interrogan­domi su cosa potessi fare. La sera del 2 novembre mi stavo recando in chiesa per la celebrazione dei de­funti. Mi si è avvicinata u­na ragazza nigeriana. Le ho detto che stavo andan­do a messa, mi ha chiesto se poteva accompa­gnarmi. Abbiamo pregato in­sieme e do­po mi ha confidato una vicen­da terribile di sofferenze, inganni e u­miliazioni. Ho capito che quella era la mia missione. Allora ho studiato il feno­meno, ho lavorato sulla strada, ho incontrato sto­rie terribili. Molte finite con la liberazione e addi­rittura il rimpatrio. Nel 2000 l’Usmi mi ha chia­mata a Roma».

Quali sono i canali di in­gresso in Italia?

«La nuova schiavitù è sem­pre generata dalla povertà e dall’ignoranza. I traffi­canti vanno a cercare le vittime negli angoli più re­conditi dell’Africa e dell’e­st europeo, dove è diffuso l’analfabetismo e nessuno sa leggere i manifesti del­la campagne di prevenzio­ne. In Romania e in Alba­nia circuiscono le giovani, si fidanzano e poi le por­tano qui con la promessa delle nozze. Poi le schia­vizzano con la violenza. In Africa invece promettono un lavoro, poi una volta ar­rivate, sequestrano i pas­saporti e si fanno pagare viaggio, vitto, alloggio e il posto in strada. Ogni ra­gazza contrae con gli schiavisti un debito di 70 mila euro che paga con le prestazioni. Le africane so­no terrorizzate con i riti voodoo praticati dalle ma­man, le carceriere, e le mi­nacce di ritorsioni contro i famigliari».

Come aiutate le donne? «L’Usmi non lavora da so­la, ma partecipa al coordi­namento nazionale anti­tratta, collaborando stret­tamente con organismi cattolici quali Gruppo A­bele, le congregazioni ma­schili, la Caritas italiana e le Caritas diocesane. Le congregazioni femminili hanno raccolto la sfida con entusiasmo, per noi è un ritorno al significato au­tentico dei nostri carismi. Ci siamo messe in rete, ab­biamo 110 comunità sul territorio nazionale dove, in 10 anni, abbiamo accol­to 5000 donne. Offriamo protezione, insegniamo loro la nostra lingua e un lavoro finché camminano da sole. Molte arrivano in gravidanza, le nostre case ospitano spesso mamme e bambini. I progetti, se ap­provati, possono essere pagati dallo Stato. Tutto ciò grazie a un dispositivo di legge, l’articolo 18 della legge sull’immigrazione, rimasto immutato anche nella Bossi Fini che conce­de il permesso alle vittime di tratta che denunciano gli aguzzini. Fu elaborato nel 1998 quando, insieme alla Caritas italiana invi­tammo le parlamentari dei due poli ad ascoltare le te­stimonianze delle nostre giovani».

E a livello internazionale? «La rete delle suore si sta espandendo a livello glo­bale. È strategico lavorare Italia e nei paesi di prove­nienza, in questo modo possiamo favorire i rimpa­tri o almeno far riprende­re i contatti con le famiglie. E difendere le ragazze se i trafficanti osano rifarsi vi­vi denunciandoli alla poli­zia ». Per soccorrere una vitti­ma, aiuta l’abito da suora? «Si, il nostro abito e la cro­ce ricordano l’infanzia, la famiglia. Si fidano di noi, raccontano storie atroci, ti dicono: 'mamma prega con me'. Spesso è l’inizio del cammino verso la li­bertà ». Suor Eugenia Bonetti: «Le nostre congregazioni hanno raccolto la sfida con entusiasmo. In 10 anni abbiamo aiutato 5.000 donne in 110 comunità alloggio»

Si vuole ringraziare Avvenire da cui questo articolo è tratto.

3 commenti:

massimo ha detto...

salve da massimo di parma.vorrei poter scrivere direttamente a suor eugenia per complimentarmi di persona e farle sapere che anche io nel mio piccolo ho provato a fare qualche cosa per queste povere ragazze.si può vedere il documentario "la passeggiata" sul sito www.associazionelegiraffe.org grazie.

Unknown ha detto...

saluti da Marco. Il mio amico Massimo mi ha fatto conoscere l'operato di Suor Eugenia e voglio anch'io manifestare la mia ammirazione e SOLIDARIETA' con Lei.
Anch'io mi sono trovato in condizioni di aiutare alcune di queste ragazze ma ho trovato ostacoli insormontabili per poter fare qualcosa quindi solo con qualche piccola azione ho potuto fare "qualcosa"...
Ora ho questo esempio che mi incoraggia.
Vorrei anch'io poter conoscere Suor Eugenia di persona e congratularmi con Lei.
Grazie a Suor Eugenia UNO DEI NOSTRI VERI EROI.
Marco

Magdi ha detto...

E vero, Sr. Eugenia è grande!
Ho avuto la fortuna di conoscerla di persona e di lavorare anche con lei, visitando le ragazze sulla strada e nel CTP di Ponte Galeria, e posso dire che ho imparato tantissimo da lei. Il suo entusiasmo missionario è davvero contagioso! Grazie carissima Sr. Eugenia!