14 luglio, 2008
Quando Finira' Tutto Questo ?
Sul barcone partito dalle coste del Nord Africa si erano stretti in 48. Dopo cinque giorni in mare sotto al sole ardente di luglio sono approdati sulle coste spagnole dell’Andalusia in 33. Quindici, tra cui nove bambini piccoli, sono morti di caldo e di sete e di stenti. Giornalisticamente parlando, ordinaria amministrazione: poche righe nelle pagine interne dei quotidiani, non vale di più una tragedia, se si ripete invariata cento volte all’anno, e riguarda, per di più, dei miserabili. Ma c’è un particolare in quelle righe in cui si inciampa, fermandosi in un attimo di atterrito silenzio interiore. Le madri di quei bambini, riferiscono i superstiti, sono state costrette a buttare esse stesse i loro figli morti nel mare. Sotto il cielo torrido tra l’Africa e la Spagna, in una barca affollata di uomini stremati non c’è spazio per alcuna pietà. Un cadavere, e anche quello di un bambino, in quel sole appesta i compagni con l’intollerabile fetore della morte. Disfarsene bisogna, e in fretta, liberarsene scaricando a mare le piccole membra illividite. Immaginiamoci allora – facciamo uno sforzo per vedere ciò che nessuna telecamera ci mostrerà mai – quelle madri naufraghe, attorno solo l’orizzonte infinito del mare, e quei figli di uno, due, quattro anni fra le braccia, di cui per ore hanno assistito impotenti all’agonia. Immaginiamoci l’istante in cui il respiro affannoso del figlio si quieta, e forse il materno sollievo nel pensare che il martirio è finito, e che il bambino ora è in pace. Chiudergli gli occhi, ricomporlo nelle vesti sporche, nelle piccole braccia ustionate dal sole. Forse per qualche ora i compagni avranno rispettato il muto dialogo fra madre e figlio, avvinti l’una all’altro come nell’illusione di un lungo sonno. Ma poi certo il capobarca avrà fatto segno: «È ora». Le madri dapprima si saranno disperatamente ribellate. Urla, pianti, le braccia protese ad avvinghiare il bambino inerte. Ma poi hanno ceduto, rassegnate. Altri figli le guardavano zitti, e la sopravvivenza imponeva la sua legge feroce. Ma han voluto essere loro a prenderli in braccio, dolcemente, a adagiarli sull’acqua come su una culla, allungando la mano in un’ultima carezza. A cosa somiglia questa tragedia ignorata in alto mare, che cosa ti ricorda, tanto che ti sembra di averne già letto? «Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno». La madre di Cecilia nella peste manzoniana, è lei la donna cui la memoria, in quelle poche righe distratte in un dispaccio di agenzia, ritorna. La madre che posa come un fiore reciso sul carro dei morti la figlia, doveva avere la stessa faccia, gli stessi occhi di quelle sconosciute africane in mezzo al mare. E al monatto che come intimidito si avvicina a prendere la bambina la donna dice: «No! Non me la toccate per ora. Devo metterla io su quel carro». «Devo metterla io»: così come le naufraghe hanno voluto deporre esse stesse i bambini nel mare – quasi fossero le onde lenzuola da teneramente rimboccare. La peste, c’è ancora. È lo strazio dei morti di fame naufraghi nei nostri mari. Ancora le donne cedono alla morte i loro figli inutilmente vegliati nelle notti di deriva. Noi, non le vediamo. Nessuna televisione ce ne mostrerà gli occhi neri mentre si chinano sull’acqua col figlio in braccio, irrigidito «in un abbandono più forte del sonno».
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